
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30109/25 del 2 settembre, ha stabilito un principio di grande rilievo in materia di sequestro preventivo finalizzato alla confisca in relazione a reati tributari.
Il caso riguardava l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 D.lgs. 74/2000) e il sequestro disposto dal Gip nei confronti di una società e di un soggetto indagato. Il Tribunale di Modena, in sede di riesame, aveva annullato il provvedimento ritenendo insussistente il periculum in mora, valorizzando vari elementi:
- l’accesso della società alla procedura di composizione negoziata della crisi;
- la garanzia degli organi della procedura circa l’assenza di dispersione patrimoniale e la conservazione del valore aziendale;
- il parere positivo dell’esperto nominato, che aveva riscontrato margini operativi positivi e una situazione economica in equilibrio;
- la stabilità del patrimonio della società e del soggetto indagato, senza condotte distrattive.
La Suprema Corte ha confermato l’orientamento del Tribunale, sottolineando che il sequestro preventivo non può essere giustificato automaticamente dalla pendenza di una procedura di risanamento. È necessario che il giudice motivi in modo puntuale circa l’esistenza di un concreto rischio di dispersione, deterioramento o alienazione dei beni.
La pronuncia chiarisce dunque che la crisi d’impresa non equivale di per sé a pericolo per la confisca, con importanti riflessi anche sul piano fiscale. In particolare, sarebbe opportuno che tale principio venisse applicato anche in tema di iscrizione nei ruoli straordinari (art. 11 D.P.R. 602/1973), dove troppo spesso l’Erario presume la crisi come automatica ragione di pericolo per la riscossione dei tributi.