La Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della norma della spending review 2014 – Statali, salta il tetto agli stipendi – Da 240 mila euro lordi il limite torna a 311.658,53 €

29/07/2025

La sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del 28 luglio 2025 rappresenta un momento di svolta nella disciplina dei tetti retributivi del pubblico impiego, segnando il definitivo superamento di una misura che, nata come risposta emergenziale alla crisi economica del 2014, aveva finito per cristallizzarsi in una limitazione strutturale delle retribuzioni pubbliche.

La pronuncia della Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 13, comma 1, del decreto legge 66/2014, convertito dalla legge 89/2014, che aveva ridotto il tetto retributivo per i dipendenti pubblici da 311.658,53 euro a 240.000 euro lordi annui. Questa norma, inserita nel contesto delle misure di spending review del governo Renzi, aveva rappresentato un inasprimento significativo rispetto alla disciplina precedente, che parametrava il limite massimo al trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione.

Il percorso normativo che ha condotto a questa pronuncia affonda le radici nella crisi del debito sovrano del 2011, quando il decreto legge 201/2011 introdusse per la prima volta un tetto retributivo generale per il settore pubblico. La misura, inizialmente concepita come temporanea e giustificata dall’eccezionale gravità della situazione finanziaria, venne successivamente confermata e inasprita dal decreto legge 66/2014, che fissò rigidamente il limite in 240.000 euro annui, sganciandolo dal parametro dinamico del trattamento del primo presidente della Cassazione.

La Corte Costituzionale aveva già affrontato la questione con la sentenza n. 124 del 2017, ritenendo allora costituzionale il tetto retributivo in considerazione della “situazione di instabilità finanziaria di eccezionale gravità, indotta da una allarmante crisi del debito sovrano italiano”. La Consulta aveva tuttavia precisato che tale misura, seppur derogatoria rispetto a molteplici precetti costituzionali, trovava giustificazione solo se caratterizzata da temporaneità e contingenza rispetto a una situazione del tutto particolare.

Con il decorso del tempo e il superamento della fase più acuta dell’emergenza economica, la norma ha progressivamente assunto carattere strutturale, perdendo quella giustificazione eccezionale che ne aveva inizialmente legittimato l’adozione. La Corte ha quindi riconosciuto che l’art. 13 del decreto legge 66/2014 “si è progressivamente posto in contrasto con la Costituzione una volta palesata appieno la natura strutturale della previsione”, incorrendo in una illegittimità costituzionale sopravvenuta per violazione degli artt. 108, secondo comma101, secondo comma, e 104, primo comma, della Costituzione.

La pronuncia si inserisce in un contesto giurisprudenziale consolidato che aveva visto la Cassazione e il Consiglio di Stato affrontare numerose questioni applicative del tetto retributivo. La Cassazione civile, con la sentenza n. 18070 del 3 luglio 2025, aveva chiarito che l’art. 13 del decreto legge 66/2014 aveva portata sostitutiva della precedente disciplina e si applicava a tutti i rapporti dei dipendenti pubblici e delle società partecipate, compresi quelli in essere alla data della sua entrata in vigore. Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 11110 del 2023, aveva precisato i criteri di calcolo del tetto, stabilendo che dovesse applicarsi il criterio di competenza e non di cassa, computando il solo “lordo” e non il “lordissimo”.

L’aspetto più significativo della sentenza n. 135/2025 risiede nel riconoscimento dell’incostituzionalità sopravvenuta della norma. Questo istituto, di elaborazione giurisprudenziale, si verifica quando una disposizione normativa, inizialmente conforme a Costituzione, diventa successivamente illegittima per il mutare delle circostanze di fatto o di diritto che ne giustificavano l’adozione. Nel caso di specie, il venir meno della situazione di eccezionale gravità economica che aveva legittimato l’introduzione del tetto retributivo ha determinato l’incompatibilità costituzionale della misura con i principi di indipendenza e autonomia della magistratura.

La Consulta ha inoltre sottolineato come la pronuncia si ponga “in linea con i principi ai quali si ispirano plurimi ordinamenti costituzionali di altri Stati”, richiamando espressamente la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 25 febbraio 2025 (grande sezione, cause C-146/23 e C-374/23), che aveva analogamente censurato la riduzione del trattamento retributivo dei magistrati. Questo riferimento evidenzia la dimensione sovranazionale della questione e l’importanza del principio di indipendenza giudiziaria nel contesto europeo.

Gli effetti della pronuncia sono particolarmente rilevanti dal punto di vista temporale. Trattandosi di incostituzionalità sopravvenuta, la sentenza non avrà efficacia retroattiva, ma opererà solo a partire dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Questo significa che i dipendenti pubblici che hanno subito decurtazioni retributive negli anni passati non potranno richiedere il rimborso delle somme non percepite, mentre dal momento dell’efficacia della sentenza il tetto retributivo tornerà al valore originario di 311.658,53 euro, corrispondente al trattamento del primo presidente della Corte di Cassazione.

L’incostituzionalità della norma, “in ragione del carattere generale del tetto retributivo”, riguarda tutti i pubblici dipendenti e non solo i magistrati, estendendosi quindi a dirigenti, funzionari e a tutto il personale delle amministrazioni pubbliche e delle società partecipate. Questo aspetto assume particolare rilievo considerando che la giurisprudenza amministrativa aveva già chiarito l’ampia portata applicativa del tetto retributivo, che si estendeva anche a figure come i giudici tributari, gli avvocati dello Stato e il personale delle società pubbliche.

La decisione della Corte Costituzionale si inserisce in un più ampio dibattito sulla sostenibilità delle politiche di austerità nel settore pubblico e sulla necessità di bilanciare le esigenze di contenimento della spesa con i principi costituzionali di adeguatezza retributiva e indipendenza delle funzioni pubbliche. La pronuncia rappresenta un importante precedente per future valutazioni di costituzionalità di misure analoghe, stabilendo che le limitazioni retributive nel settore pubblico, per quanto giustificate da esigenze di bilancio, non possono assumere carattere permanente senza una specifica e rinnovata giustificazione costituzionale.

Dal punto di vista pratico, la sentenza comporterà un incremento della spesa pubblica per il personale, che dovrà essere quantificato e coperto attraverso le ordinarie procedure di bilancio. Le amministrazioni pubbliche dovranno procedere al ricalcolo dei trattamenti retributivi per tutto il personale interessato, applicando il nuovo limite di 311.658,53 euro con decorrenza dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale.

La pronuncia della Consulta chiude definitivamente una fase caratterizzata da rigide politiche di contenimento retributivo nel settore pubblico, aprendo una nuova stagione che dovrà necessariamente confrontarsi con l’esigenza di garantire l’attrattività delle carriere pubbliche e la valorizzazione delle competenze professionali, pur nel rispetto dei vincoli di bilancio e dei principi di buon andamento dell’amministrazione.

Altri Articoli